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06 febbraio 2012

«che cos'è l'essere?» (2)

Qualificare la domanda «che cosa è l'essere?» come un fenomeno storico conduce probabilmente alla curiosità sulla sua (supposta) genesi.

Preliminarmente conviene riconoscere che la questione dell'essere è stata con ogni probabilità una caratteristica saliente e (conflittualmente) fondatrice della nostra civiltà occidentale.
Non si può sottostimare il valore della ricerca di una certezza della realtà, del lavoro critico associato, per fondare la certezza della conoscenza.

Secondo quanto già detto, cioè se il concetto di essere non ha un'evidenza fondante, la distinzione tra essere e non-essere dovrebbe essere vaga e opinabile. Tuttavia questa non è una conseguenza accettabile. E' chiaro che questa distinzione risponde a un bisogno vitale, la vita non sarebbe possibile nell'impossibilità di operare discriminare - quando serve - la realtà dall'apparenza. E infatti la capacità di questa distinzione l'abbiamo connaturata, se si assume che i nostri sensi siano sufficienti per farla. Dunque la questione dell'essere resta fabbricata come già detto - siccome i sensi sanno fare da soli (per fortuna) - però assume un valore epistemologico come critica della determinazione cognitiva e della sua certezza. Ed è questo che fonda la scienza non solo come conoscenza certa, ma anche nel senso di capacità di manipolazione della realtà. Così nel recinto scentifico, la questione dell'essere si può tradurre in un senso assai poco filosofico: «In base a cosa mi garantisco la disponibilità di ciò che mi appare? Com'è che lo posso controllare? Com'è che ne posso fruire, me ne posso appropriare? Com'è che lo posso dominare, soggiogare e farne un bene?». 
Questa parafrasi cerca di apparire deliberatamente urtante per almeno due motivi: a) è possibile (e, in effetti, è attuale) che la questione dell'essere non faccia uso della verità, o che ne faccia un uso chiaramente subordinato a valori al di fuori della prospettiva della verità come un fine in sé; b) ammettendo per buona una formulazione concorrente non indirizzata alla verità, la prospettiva filosofica tradizionale implicita nella questione dell'essere ne è così avversata da risultare più chiara.

In effetti la verità non è solo una (vana) questione di congruità o di rispondenza ai cosiddetti fatti. La verità è compenetrata con l'essere, ma anche con la morale. (Siamo onesti: qualunque verità interpretabile contro la morale è stata sempre accolta come uno scandalo e osteggiata. Persino nel nostro tempo nichilistico questo è ancora avvertibile).
Così la questione dell'essere non è mai stata filosoficamente semplice, ma sempre duplice: teoretica e morale.
Si persegue l'essere come verità e la verità come essere, ma si persegue anche una pars destruens, cioè mettere nel non-essere ciò che non risponde alla morale, qualificandolo il male come inganno, così che la sola conoscenza autentica è quella del bene.
Qui le coppie antitetiche essere-bene e apparenza-male devono essere capovolte in bene-essere e male-apparenza per eplicitare come la conoscenza delle «cose prime e principali» - la missione del filosofo secondo Platone – sia il procedimento iniziato partendo da un giudizio di valore. La questione dell'essere è lo strascico della guerra di Platone contro il mondo per costruire il suo bene: questa è l'origine della domanda «che cosa è l'essere».
E così la trinità si completa: essere-verità-bene, realtà-conoscenza-morale.
[Siccome si è scelto trinità, se qualcuno volesse vederci un'analogia a Padre, Figlio e Spirito Santo, non mi opporrei. Ci si può chiedere se sarebbe possibile l'analogia anche con la trifunzionalità indoeuropea e cioè, rispettivamente alle posizioni, con Quirino, Giove e Marte – nel qual caso avremmo una certa misura della perversione indotta da Socrate... Ma queste, almeno al momento, sono solo fantasie].

«Che cos'è l'essere?» ha prima preso il significato di un catalogo ragionato del reale, poi ha posto un reale indipendente che aveva dignità (teoretica) ad esistere, fino a significare che cosa ha più dignità (morale) di essere - e cioè: a che cosa mi devo conformare per meritare di vivere, che cos`è tale per cui io possa vivere e non essere condannato infine a dissolvermi come la nebbia del mattino, come posso oppormi a un mondo che che non voglio riconoscere come vero, che voglio rifiutare.

05 febbraio 2012

«Che cos'è l'essere ?» (1)

E' possibile rispondere alla domanda «che cos'è l'essere?». Sì è possibile, ma non c'è quella risposta «che mondi possa aprirti». Vi prendo un po'in giro e dico che l'essere è l'infinito di un verbo.

Facciamo l'esercizio anche con qualche altro infinito: "che cos'è (il) maturare?", "che cos'è (il) degenerare?", "che cos'è (il) vertere?", "che cos'è (il) simpatizzare?".
Sono domande meno affascinanti e suonano un po' fastidiose (porre "che cosa è" con un infinito sembra davvero un caso limite - un verbo non è una cosa, bisognerebbe invece usare «che vuol dire...»).
Ma restano domande ancora possibili.
E presuppongono davvero risposte univoche? Esiste un carattere intrinseco che permetta di cogliere l'essenza di, poniamo, (l') "assorbire"?
Sapremmo dare una definizione "assoluta" di uno di questi infiniti, su base di caratteri completamente contenuti nell'azione o nello stato espresso, senza riferirci a oggetti, a qualità, a condizioni "esterne"?
Non credo - tra l'altro, tutti ammettono variazioni semantiche secondo i contesti d'uso (e tutti indicano un'evoluzione storica delle accezioni).

Nel caso di "essere" queste risposte sono ancor meno presupponibili. Non è nel linguaggio che si possa trovare il presupposto che porta alla domanda «che cos'è l'essere?».
L'uso di "essere" - nel senso sia di più ricorrente, sia di semanticamente primigeno - è quello di copula: congiunge oggetti, concetti, qualità, situazioni... Si «è» qualcosa, in qualche modo, in qualche posto, in qualche momento ecc. «E'» e basta (senza « - qualcosa») non fa parte dell'uso ordinario del linguaggio.

Inoltre "essere" non qualifica un tipo di predicazione più essenziale. Il verbo "essere" non esprime un carattere analitico, intensionale della predicazione. Affermare che qualcosa « è » una certa qualità (quantità, stato,...) certamente ne riferisce un aspetto, ma non afferma un carattere intrinseco di per sé. Tantomeno eterno e immutabile - "essere" non è l'opposto di "divenire". E' solo un caso molto particolare dire che una cosa " è ", sans plus. E' un'enunciazione che si limita ad afermare un solo termine di una relazione, può essere usato per indicare la presenza di qualcosa, ignorando altri termini che definiscano come si configuri.

[«Io sono colui che è» potrebbe avere una significazione ben diversa da 'Eν ἀρχῇ ἦν ὁ ΛόγοςIn principium erat Verbum comunemente intesa dai cristiani. Potrebbe ben significare un Dio che professa di poter congiungere e "intrufolarsi" in qualunque cosa, ovunque, in qualsiasi circostanza, in qualunque momento... Sia nel bene che nel male, senza nessun controllo e direzione. Un'onnipotenza che sarebbe omni-potenzialità e omni-attualità - una promessa terribile, decisamente non incompatibile con la religione dei Giudei].

Certamente ci saranno scrollate di spalle, perché questa non è la risposta - o meglio, non è la domanda.
Giustamente, quello che è davvero interessante non è la risposta, ma la domanda.

Perché mai questa domanda?
La tesi qui è che non si tratti di una domanda genuina, onesta. Non è la questione fondamentale né la filosofia prima - la domanda non si dà, è fabbricata
Innanzi tutto per il termine essere, che come detto sopra non avrebbe nessuna evidenza per imporsi.
Al di là del giochino sugli infiniti, questa parola è il frutto di un ricorrente processo filosofico per cui un nome crea qualcosa – spesso in forma magmatica – e poi i filosofi invertono la causa con l'effetto, sostenendo che il qualcosa ha generato il nome. E accade che il nome vive una sua storia e si incrosta di strati semantici – tra cui permanenza e immutabilità. Perciò essere si posiziona in una certa galassia di significati, in cui il parziale sinonimo più rilevante è realtà. Ma "essere" sarebbe una specie di ur-Realität, ciò che fa sì che il reale sia tale, indipendentemente dalla sua configurazione. (Ma non siamo – più – alle essenze o alle cose-in-sé).

Tutto questo non costituisce un'obbiezione – se non alla pretesa ineludibilità della domanda.
Aumenta invece l'interesse per la sua comparsa.

A questo punto conviene fare un salto e vedere quanto la domanda «che cosa è l'essere?» si apparenti alla domanda «che cosa è vero?». Sono per lo meno sorelle siamesi, ma si può ammettere di più: sono due facce della stessa medaglia. In quale caso ciò che è non sarebbe ipso facto anche vero? La negazione sarebbe concepibile... ?

E qui il gatto è fuori dal sacco... E' la la conoscenza (e la razionalità), più che la realtà, che viene messa in esame. In questo senso almento si tratta di una questione fondamentale, non per il fondamento della realtà, ma per il fondamento sistemico del sapere.

Verità e essere si sono compenetrati. Se ciò che è vero non è, manca il criterio per riscontrarlo, cioè verificarlo – l'essere è l'attuazione del vero. Allo stesso modo ciò che è deve essere vero, indipendente e immutabile per l'osservatore, oggettivo come si dice.
Ciò che è vero ha assunto i caratteri di permanenza e universalità e cio che è ha assunto il carattere di  qualifica del reale, di riferimento (e pure il fine).

Questo è il risultato di un processo storico - la metafisica non si fonda da sé. Possiamo immaginare percorsi alternativi a questa posizione – e questo vuol dire che stiamo per percorrerli.
L'esperienza è il divenire non l'essere. Ciò che appare come essente è suscettibile della domanda «quanto durerà? per quanto rimarra nello stato che percepisco? come (quando) questo stato cambierà?», non di quella «com'è che ciò che mi appare è reale? che cosa fa sì che ciò che percepisco non è solo apparente?». La possibilità di conoscere la risposta al secondo gruppo di domande non si dà (a meno di non mettersi in una propettiva come il kantiano Idealismo Trascendentale, che probabilmente sarebbe stato male accolto dall'accademia platonica). [L' Idealismo Trascendentale è una scienza dei limiti. Perché indugiare in una scienza dei limiti, rispetto a ciò che per definizione non si può conoscere - e dunque non dovrebbe esserci, meriterebbe qualche riflessione...].
D'altra parte l'identità di essere e verità, il realismo platonico, se non falso dovrebbe almeno apparire un po' ingenuo. Lo stato ontologico delle matematiche dovrebbe almeno corroborare qualche dubbio. In generale, le stesse scienze sperimentali che inizialmente parevano comprovare un cosmo razionale dove essere è verità e verità è essere, oggi fomentano un certo scetticismo.