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08 luglio 2010

Il falso (problema): il razionale

Non è il caso di assumere un'aria tragica, disperando che ciò che è "reale" non sia poi davvero "razionale"...
Tutto sommato si tratta di un falso problema, anzi del falso problema.

Il professor Hegel, quello che ha il brevetto della "formuletta", ignorò qualunque imbarazzo pur di arrivare a questo piccolo "trionfo" e pose la sua (autorevole) candidatura a diventare il filosofo definitivo, quello dopo di cui potevano squillare le trombe del giudizio universale (che, nel caso di Hegel, sarebbe stato una semplice formalità, siccome in pratica aveva già fatto tutto lui).
Queste vanità dei filosofi, come la fine della storia, tutto sommato, si possono guardare anche con un po' di benevolenza, osservando il piacere e l'impegno di quelli che sono presi dal gioco, senza guardare più di tanto al risultato.
C'è anche un sano entusiasmo nella "ragione alla conquista del mondo" ed è più saggio lasciare "lavorare" questi razionalisti - che non mancano mai - piuttosto che interrompere i loro tornei di Risiko.

Proprio come i bambini, che non si stancano di esplorare tutte le possibilità combinatorie di certi giocattoli, come il lego, così gli Europei si sono baloccati a lungo e con insistenza con questa ragione, che doveva svelare e soggiogare tutto il mondo - e da un certo punto di vista, si potrebbe anche credere che davvero è stato così.
In effetti, noi sopravvissuti al post-moderno, dovremmo forse chiarirci le idee su cosa sia e su cosa sia davvero mai stato il "razionale" (e anche quell'importante sottoprodotto del "nazional-popolar-razionale").

Razionale è stato un certo stile di discorso, formato ad Atene nel V sec. a.C.
Certamente conteneva in forma ingenua quei modi che poi sono stati codificati nella logica, così come la costituzione di universi, di classi, di operatori, di regole di inferenza. Accanto a questi tratti però conteneva anche alcune credenze, che non si preoccupò mai di dimostrare, come l'esistenza di nessi (insomma, il principio di causa), di scelte, di fini, così che tutto si potesse spiegare da combinazioni di questi elementi - cosa che nella vita quotidiana poteva accadere (talvolta) solo ad un homo oeconomicus.
Questa applicazione della razionalità solo a certi ambiti, fondamentalmente alla codificazione di protocolli e regole di scambio, nonché alle discussioni giuridiche (e si può argomentare che economia e diritto sono due facce della stessa medaglia), non dovette mai essere percepita come un limite.
La razionalità ai suoi albori non si preoccupava davvero della verità, cercando piuttosto di costituire delle "piattaforme di intesa".

Pare facile capire come si arrivò all'adozione di massa della razionalità in una società mercantile che faceva largo uso dei tribunali e delle assemblee.

Questo atteggiamento sobrio della razionalità, molto poco incline a indugiare su atteggiamenti umorali e più intimisti, fu certo la benedizione dell'antichità classica e non ci si dovrebbe esimere dal felicitarsi di essere i remoti eredi di quell'energia lucida e rigorosa.
Vale la pena di notare come i Sofisti ateniesi presentassero tesi che oggi chiameremmo nichilistiche, ma che invece di essere connotate da quell'alito  pesante di certi russi, si presentavano con una lievità riscontrabile solo in certi francesi del XVIII secolo - ma senza ipocrisia e cattiva coscienza.

Il problema con la ragione inizia - effettivamente - con Platone. Lì c'è stato il contrabbando di valori morali nella ragione.
Forse, si trattava semplicemente di un programma conservatore.
Paradossalmente, il razionalismo di Platone era fondamentalmente anti-razionalista. La ragione rivista e corretta (secondo Platone) avrebbe ridato ai bennati, ai belli e buoni, la loro egemonia... secondo ragione.
L'idea di fondo era di arrestare il gioco linguistico combinatorio dei Sofisti che pareva sfuggito ad ogni controllo morale (si veda il discorso degli Ateniesi ai Melii in Tucidite), introducendo criteri surrettizi (in realtà giudizi morali) che li avrebbero coartati in una certa direzione. In questo lo stesso Platone era vittima della sofistica e del delirio onnipotente della loro retorica razionaleggiante. D'altra parte, conscio della sua stirpe, non voleva nemmeno abbassarsi al livello di quei parvenus foresti e sortì, forse dalle profondità delle sue viscere, il culto mortifero della verità. (Tutto questo fu sintetizzato in quel totem di vecchio simpatico romiscatole che è il Socrate platonico, che argomentò le buone ragioni per cui un vecchio stanco dovrebbe amare la morte, l'eterno riposo o ritrovarsi con i vecchi amici perduti e immaginari).

Platone combinò la concezione di una sacra realtà divina, di un'essere impresso dall'al di là degli dei superi (che gli veniva da altri nobili decaduti ansiosi di riciclarsi, come i Pitagorici e gli Eleati), con la dialettica sofistica. Da qui ciò che era nato come tecnica forense divenne lo strumento deputato, fino a risultare l'unico strumento, per scoprire e dichiarare ciò che ci doveva essere per davvero in opposizione all'apparenza dei sofismi: il vero svelato dalla (sua) ragione.
Platone, esiliato in patria, ne divinò una nuova, forse mutuando il sentimento dei barbari orientali, ma rifiutando di porla in un futuro, come se dovesse ammettere di attendere un riscatto. Si rifiutò di ammettere un mondo che lo aveva superato illudendosi di superarlo, dichiarandolo non vero, non essente e legando la forza delle sue rivendicazioni a una necessità sacra che oggi chiameremmo probabilmente scientifica.
Da questo incredibile riformatore nostalgico, si vedono già bene le tare dei razional-realisti.

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